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Tra le molte realtà lavorative in cui la Cooperativa Teatroincontro ha lavorato e lavora per il primo maggio abbiamo scelto di raccontare un laboratorio svolto con i Vigili del Fuoco.

L'USCITA DI SICUREZZA
di Mimmo Sorrentino

Michele è un vigile del fuoco prossimo alla pensione. Ha gli occhi vispi, i capelli bianchi e un fisico da giocatore di bocce. Spalle e braccia toniche e una discreta pancetta. “Al Comando mandano sempre me nelle scuole perché ho una buona parlantina” mi dice prima di entrare in un’aula della scuola Paolo Grassi dove ci attendono studenti di drammaturgia, regia e recitazione già diplomati.

Entriamo in aula. Non faccio in tempo a presentarlo al gruppo che lui dice “Non so cosa vi aspettate da noi. Nei film i pompieri salvano sempre delle gran belle ragazze. Nella realtà vecchi messi male. Soprattutto d’estate”. E ci racconta di una vecchietta a cui era caduta la dentiera nel terrazzo di sotto. “Il condominio era vuoto. I parenti erano in vacanza e noi siamo andati a recuperare la dentiera”.

Si intuisce che Michele si era preparato questo attacco. Forse pensava in questo modo di rompere l’imbarazzo iniziale. Ma ha bruciato i tempi. Così, mentre raccontava, si è sentito stonato. Si è imbarazzato ed il suo imbarazzo ha contagiato il gruppo, che gli ha sorriso per cortesia, come alla fina di una barzelletta raccontata male.

Lo ringrazio per aver accettato il nostro invito e lo presento al gruppo. Poi gli dico che “Ciò che ci aspettiamo da lei è che ci racconti, come ha fatto da subito, storie riguardanti il suo lavoro. Dalle storie che lei ci racconterà e da quelle che ascolteremo nei prossimi giorni dai suoi colleghi, proveremo, non è sicuro che ci riusciremo, a scrivere un testo per uno spettacolo teatrale. La prima storia che lei ha raccontato ci ha fatto sorridere, ora, se ne ha voglia, potrebbe raccontare una storia che ci faccia commuovere”.

“Sempre di anziani?” mi chiede.

“Scelga lei”.   

Ci racconta, come se stesse parlando di una scena vista a cinema e non di qualcosa che gli sia veramente accaduto, di un intervento in zona Lorenteggio. “Gli inquilini di uno stabile avevano sentito dei lamenti provenire da un appartamento abitato da una signora anziana e ci avevano chiamati, ma quando siamo entrati nell’appartamento non c’era traccia della signora. Non riuscivamo a trovarla. Le era caduto l’armadio addosso e se ne stava in silenzio, anche se aveva una spalla fratturata. A un certo punto emise un lamento. Sollevammo l’armadio. Era tutta sporca. Vi lascio immaginare. Piangeva e non ci fu verso di calmarla”.

La storia che ha raccontato non commuove. Spaventa. Ci mostra un futuro che speriamo per noi non si avveri. Allora provo a formulare la mia richiesta in modo più diretto. “Le è mai capitato di mettersi a piangere alla fine di un intervento?”.

“Raramente. Mentre intervieni non c’è tempo per piangere e dopo l’intervento delle volte si resta così scossi che l’unica cosa che vuoi fare è dimenticare quello che hai visto. Però, se proprio ci tenete a sapere di una volta che ho pianto, ve lo racconto. Un intervento in via Barilli. Un uomo non aveva i soldi per acquistare la bambola del gas. Così, per riscaldare la pasta, aveva ricoperto i fornelli con della carta di giornale e le aveva dato fuoco. La casa era distrutta. E mentre spegnevamo l’incendio, l’uomo mi disse - Lo sa signor vigile che sono due settimane che non vedo la televisione? – e io non so perché, ma mi sono messo a piangere”.

Michele ha raccontato queste due storie con disappunto. Come chi non capisce perché gli si chieda di raccontare questo e non altro. Come se ritenesse il dolore collaterale e non centrale rispetto al suo lavoro. Riporto la discussione sui temi con cui lui ha iniziato il suo racconto. “Non vi capita, gli chiedo, di salvare belle ragazze, ma qualche volta le sarà capitato?”

“Tanti anni fa. In zona Navigli.  Di notte. A un quarto piano. Una ragazza, mentre era nel letto, si era sentita toccare da qualcosa di viscido e ci aveva chiamati. Era così scioccata da non rendersi conto d’indossare ancora gli indumenti con cui era andata a dormire. Un perizoma e un reggiseno trasparente. Entrammo nella camera da letto. Sollevammo il copriletto. Ci venne incontro un pitone albino di tre metri tutto bianco, con le chiazze gialle, gli occhi rossi e la bocca aperta. Prendemmo l’estintore e gli scaricammo tutta la bombola addosso. Niente. Non gli fece niente. Io e il mio collega ci guardammo negli occhi e senza dire una parola prendemmo un badile e facemmo fuori il pitone a badilate. Poi lo portammo in spalla sul camion”.

Una ragazza del corso lo rimprovera. I pitoni albini sono innocui. Si poteva anche non ammazzarlo o chiamare la protezione animale.

“Alle due di notte un mostro di tre metri con la bocca aperta che si trova e non sai come in una casa ad un quarto piano tutto sembra tranne che innocuo, te lo assicuro”.

Gli chiedo se c’è differenza tra il turno di giorno e quello di notte.

“Di notte è più pesante. Di solito si esce tre o quattro volte. Mentre stai dormendo ti trovi a gettare acqua su di un incendio e delle volte lo preferisci a quando ti chiamano per stronzate”. E racconta di una volta che all’una di notte furono chiamati da un architetto in piazzale XXlV maggio. Aveva una perdita nel bagno e non sapeva dove fosse il rubinetto centrale per chiudere l’acqua. “Ci chiamano per la qualunque, ci dice. Gli abitanti di questa città si stanno trasformando in galline di allevamento. Non sanno fare più niente”. 

Gli dico che, a causa del suo lavoro, lui ha accesso alla vita privata delle persone, dei luoghi e pertanto conosce cose che gli altri non sanno. “Cosa crede che i milanesi ad esempio non sanno della propria città?”

“Che a Milano muoiono un sacco di giovani. Nessuno se ne accorge, ma ne muoiono in tanti. Per incidenti stradali, per overdose, ma la maggior parte si suicida. Nessuno ne parla ma sono in tanti ad uccidersi. Ne ricordo uno che si era impiccato con l’asciugamano del bagno dopo averci provato prima con la cintura dei pantaloni. Era un ragazzo bellissimo. Suo padre mi disse “È una liberazione. Solo la madre gli era ancora legato”.

Una ragazza del corso gli chiede di raccontarci un episodio in cui si è trovato in pericolo di vita. Ci racconta di un intervento in via Mede. “Dovevamo andare a verificare una perdita di fumo da un portabagagli di un’auto. Per sbaglio entrai in controsenso. Mi misi a bestemmiare perché mi ritrovai l’auto con il muso davanti. Appena scendemmo dal camion, l’auto esplose. Era a Gpl. Nell’esplosione un mio collega perse l’udito. Se non fossi entrato in controsenso, l’auto ci sarebbe esplosa in faccia. Da allora penso che anche il controsenso sia opera di Dio”.

Michele non ci lascia il tempo di fare altre domande. È scosso dai suoi stessi racconti. Inizia a spiegarci ciò che di solito forse spiega agli studenti nel corso dei suoi incontri nelle scuole. “Il servizio si divide in due turni. Uno dalle otto alle venti e uno dalle venti alle otto. In tutto il mondo è così. Solo a Parigi è diverso. Prima regola è salvare la propria vita e quella dei colleghi. Seconda regola, salvare la vita degli altri. Poi la vita degli animali e infine la vita delle cose. Tre suoni corti, uno lungo e tre corti, vuol dire che deve uscire l’autopompa. Tre suoni corti e uno lungo vuol dire che deve uscire l’autoscala. Si sale sul mezzo e si parte. Quando si esce con due mezzi, si viaggia quasi incollati, perché se si viaggia a poca distanza l’uno dall’altro, si corre il rischio che un’auto senta la prima sirena e non la seconda, e potrebbe invadere la strada mentre arriva il secondo mezzo”. Ma la spiegazione dura poco. Sono ormai due ore che Michele sta parlando del suo vissuto lavorativo e non delle norme che lo regolano. E parlare del suo vissuto è diventata per lui ormai una necessità, così dal racconto sulle regole che lo determinano ritorna, senza che noi glielo chiediamo, sul vissuto e dice con un tono pieno di rancore “Il camion dell’autopompa pesa otto quintali, ma noi lo guidiamo come un ragazzo guida una bicicletta. Però può capitare lo stesso di fare un incidente. La settima scorsa un motociclista è caduto sotto le ruote del camion. A guidarlo era un mio collega. Ieri si è visto consegnare un avviso di garanzia per omicidio colposo. Gli hanno assegnato un avvocato di ufficio”.

“Da come racconti si intuisce che ti piace molto il tuo lavoro” gli dico ed è la prima volta che gli do del “Tu”.

Lui sorride. È contento che, nonostante si sia lamentato, sfogato e raccontato episodi per lo più tragici, si sia capito che ama la propria professione. Perché era questo che voleva dirci. Questa è la cosa importante e centrale del suo lavoro, che lo ama. “Ma non per i soldi. Guadagno 1.500 euro al mese e sarebbe da pirla rischiare la vita per 1.500 euro al mese, correndo tra l’altro il rischio di prenderti un tumore ai polmoni, per via del fumo e delle schifezze che delle volte respiri. Il nostro lavoro, al contrario dei ballerini, non è considerato un lavoro usurante. No. Nessuno fa il pompiere per soldi. Sarebbe da pirla fare il pompiere per soldi. Io lo faccio perché è un lavoro senza padroni. Davanti al pericolo non si hanno padroni. Ciò non vuol dire che non ci siano regole e gerarchie. Ma devono essere di buon senso, perché l’unico modo per salvarti e salvare quando sei in guerra contro la morte, è che tutti facciano al meglio ciò che hanno imparato a fare”.

L’incontro sta per terminare. “Ma come farete a trasformare quello che vi ho detto in uno spettacolo teatrale?” ci chiede. Gli rispondo che non lo sappiamo. Dobbiamo ascoltare ancora altri suoi colleghi.

Prima di salutarci Michele ci invita a cambiare le prese elettriche dell’aula. “Quelle non sono a norma”. Solo ora mi accorgo che in realtà le aveva guardate più volte mentre parlava. “Qui se si innesca un corto circuito, ve la vedrete brutta”. Ci mettiamo a ridere, ma lui non ride. “Su queste cose non c’è da scherzare” dice più a sé stesso che a noi. “Il tuo lavoro deve darti un forte senso di solitudine dal momento che le tue conoscenze, il tuo sapere sono nel migliore dei casi giudicati come deformazione professionale e nel peggiore come malaugurio” gli dico.

Michele annuisce e mi racconta sorridendo che ogni volta che sua figlia va in discoteca, le ricorda di prestare attenzione all’uscita di sicurezza. “Lei mi ribalta. Dice che sono ossessivo. Ma io glielo ricordo lo stesso perché sono convinto che quando è in discoteca, anche se distrattamente, un occhio ce lo butta sull’uscita di sicurezza”.

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